
Una vocale che non fa rumore scatena un putiferio. La schwa non cambierà il mondo, ma vietarla fa più ridere che pensare
La schwa (ə) è una vocale muta, quasi sospesa, un suono neutro che non ha genere, non ha forza, non ha accento. E forse proprio per questo, ultimamente, ne ha fin troppa addosso.
È stata proposta come desinenza alternativa per rendere il linguaggio più inclusivo, superando l’uso sistematico del maschile plurale come forma universale. Ma da strumento di riflessione linguistica, la schwa è diventata bersaglio e bandiera. Simbolo di lotta o di scherno, a seconda delle bocche che la pronunciano (o la ridicolizzano). E così si perde di vista il nocciolo della questione: la libertà.
Ed è proprio di questo che parliamo, quando parliamo di schwa. Non di doveri imposti, ma di possibilità aperte. Chi sente l’esigenza di usare una vocale neutra per non escludere, ha il diritto di farlo. Senza anatemi. Senza risatine. Senza leggi che vietano una lettera.
Perché una lingua viva si evolve. Cambia. Assorbe. Gioca. La lingua è creatività, è resistenza, è identità. E non dovrebbe mai essere blindata da chi teme di perderla, né sequestrata da chi vuole piegarla a un’ideologia. La schwa non è la soluzione a tutti i mali del mondo, ma nemmeno il nemico della lingua italiana.
Si può scegliere di usarla o no. Ma non si può vietare di pensarla.
Ma facciamo un passo indietro. Cosa c’è davvero dietro questa vocale neutra proposta come alternativa alle tradizionali desinenze maschili sovraestese? Non semplicemente una moda né, tantomeno, una pericolosa ideologia. C’è piuttosto un tentativo – forse goffo, certamente provocatorio – di aprire il linguaggio a nuove sensibilità.
Personalmente, non amo la cancel culture, né il politically correct quando si trasformano in strumenti moralistici, ipocriti, privi di sostanza e di reale efficacia. Non è così che si fa inclusione: non si cambia il mondo vietando parole, riscrivendo la realtà con una penna rossa. Eppure, vietare la schwa non è un segno di progresso. Anzi. Significa irrigidire la lingua, e con essa il pensiero. Significa aver paura del cambiamento, anche quando nasce da un bisogno autentico di rappresentazione.
Del mio professore di Linguistica all’Università di Palermo, Antonino Di Sparti, mi è rimasta impressa una frase: «Una lingua non è fatta per essere giusta, ma per essere efficace». All’epoca mi lasciò perplessa, ci ragionai a lungo. Oggi la considero una chiave per comprendere il cuore del dibattito sulla schwa. Perché dietro quelle tre parole si cela un principio fondamentale: la libertà linguistica.
Non è necessario amare o utilizzare la schwa per riconoscere che nessuno può impedirne l’uso. Ridicolizzare, censurare, o vietare questo esperimento significa limitare la libertà di espressione. Una lingua che non accetta sperimentazioni è una lingua destinata a morire.
Sono questioni da vita di tutti i giorni, routine, che vengono elevate a grandi decisioni politiche per distrarre l’attenzione sui veri temi. Tu prendi dei temi di valore modesto, quasi delle piccole mode giovanili, questioni di poco conto che nel migliore dei casi meriterebbero un confronto culturale pacato, e invece le trasformi in un caso politico, un’emergenza da titoli e dibattiti televisivi. Così facendo, togli dal confronto i veri nodi della nostra società: le disuguaglianze, la precarietà, i diritti civili negati, l’emergenza climatica. E questo dovrebbe farci riflettere.
In questa confusione, sarebbe utile soffermarsi su un paradosso che ricorre spesso nel dibattito pubblico: più i temi sono piccoli, più sembrano diventare grandi. Più sono simbolici, più vengono trasformati in battaglie decisive. È un sillogismo perverso: se se ne parla tanto, allora è importante; se è importante, allora va difeso o attaccato con veemenza. Ma non sempre è così. Anzi. Proprio l’insistenza su certi temi marginali – pur legittimi – serve a sviare l’attenzione dai problemi strutturali della società. È come concentrarsi sul colore delle tende mentre il pavimento cede sotto i piedi. Serve una gerarchia delle priorità, e serve il coraggio di riconoscere che non tutte le battaglie simboliche sono il cuore del cambiamento.
In fondo, la schwa non morde. È solo una vocale. Sta a noi decidere se e come usarla. Perché, come diceva Pessoa, la lingua è la pelle della nostra anima, e l’anima non può essere rinchiusa in gabbie ideologiche o in prigioni di conservatorismo.
Scopri di più da UMBRIA report
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.