Nel Medio Oriente frammentato, aspettarsi la pace è un’illusione. Israele, tra nemici senza volto unico e minacce continue, continua a sopravvivere grazie alla forza e al pragmatismo
Pretendere che Israele sieda al tavolo della pace con i suoi nemici è come chiedere a Benjamin Netanyahu di negoziare non con uno, ma con mille interlocutori, ognuno con una storia di ostilità e obiettivi diversi. Nel caos geopolitico che domina il Medio Oriente, la questione non è solo chi voglia la pace, ma con chi Israele dovrebbe trattare per raggiungerla.
La realtà è che Israele, fin dalla sua fondazione nel 1948, avvenuta con la proclamazione dello Stato di Israele dopo la fine del mandato britannico in Palestina e subito seguita dalla prima guerra arabo-israeliana, si è trovato circondato da nemici giurati che non ne riconoscono il diritto di esistere. Tra questi ci sono stati stati sovrani come la Siria e attori non statali come Hamas, Hezbollah e, dietro le quinte, l’Iran. Non si tratta di una guerra convenzionale, ma di una battaglia continua per la sopravvivenza, in un contesto dove ogni concessione viene percepita come un rischio esistenziale. (continua)
Israele deve affrontare sia minacce esterne che profonde divisioni interne che complicano la sua politica. Le divisioni sociali e politiche influenzano le scelte del governo, con forti spaccature sulla sicurezza, i territori occupati e le minoranze. Dagli Accordi di Oslo alla seconda Intifada, queste tensioni interne sono state sfruttate politicamente, contribuendo alla frammentazione partitica e a instabilità nelle coalizioni. La polarizzazione tra laici e ultra-ortodossi, e le disparità delle minoranze arabe israeliane, complicano ulteriormente qualsiasi tentativo di raggiungere una politica unitaria e coerente.
Un nemico senza volto unico e la prospettiva palestinese
Il problema principale di ogni ipotesi di pace è l’assenza di un interlocutore unico e affidabile. La Siria, ad esempio, è direttamente coinvolta nel conflitto con Israele fin dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando perse le Alture del Golan, ora sotto il controllo israeliano. Bashar al-Assad e la sua famiglia governano il paese con pugno di ferro da decenni, mantenendo il potere grazie a una rete di alleanze e traffici illeciti. Questa realtà fa sì che la Siria rimanga uno degli attori che non riconoscono il diritto di Israele a esistere e continuino a supportare movimenti armati anti-israeliani nella regione. La famiglia Assad ha sempre adottato uno stile di vita finto occidentale, presentandosi come modernizzatrice, mentre sul piano interno mantiene una gestione autoritaria e opprimente. Gran parte del territorio siriano è oggi dominato da gruppi ribelli o jihadisti che non accetterebbero mai un accordo con Israele, e anche se un accordo con Assad fosse possibile, non garantirebbe sicurezza lungo i confini. Il regime siriano, infatti, è coinvolto in traffici di armi e droga, come il famigerato traffico di Captagon, che rappresenta una fonte importante di finanziamento per sostenere la guerra e il potere. Questo contesto rende qualsiasi trattativa estremamente incerta e priva di garanzie di stabilità.
C’è Hezbollah – dal Libano continua a rappresentare una minaccia diretta, alimentata dall’Iran – che fornisce armi e risorse per destabilizzare Israele. Allo stesso modo, Hamas, che governa Gaza, non riconosce Israele e utilizza la popolazione civile come scudo umano per i suoi attacchi. Chi, tra questi, sarebbe disposto a firmare una pace duratura? E chi garantirebbe che quella firma venga rispettata?
Ci sono le divisioni interne tra Fatah e Hamas rendono estremamente difficile costruire un fronte unitario nelle trattative con Israele. Fatah, che governa la Cisgiordania, ha una posizione più moderata, aperta al dialogo, mentre Hamas, che controlla Gaza, è intransigente e non riconosce Israele. Queste divergenze, influenzate da differenze storiche e dal sostegno esterno, indeboliscono la capacità palestinese di presentarsi come interlocutore affidabile, favorendo Israele nel giustificare la mancanza di progressi verso la pace. Senza riconciliazione interna, una pace duratura appare improbabile.
Il Ruolo degli Stati Uniti, della Russia, della Turchia e dell’Europa
Il sostegno degli Stati Uniti a Israele è un elemento fondamentale per l’equilibrio della regione. Washington fornisce un supporto economico e militare essenziale, oltre a rappresentare un deterrente contro potenziali aggressioni. Tuttavia, questo appoggio spesso limita la capacità della comunità internazionale di esercitare pressione su Israele per compromessi che potrebbero essere necessari per la pace. La Russia, invece, cerca di mantenere un ruolo di rilevanza nella regione, supportando in particolare la Siria e mantenendo una posizione critica nei confronti di Israele. Mosca ha spesso sfruttato le tensioni per rafforzare la propria influenza e dimostrare la sua capacità di essere un attore chiave, proponendosi come mediatore alternativo agli Stati Uniti. La Turchia, sotto la guida di Erdogan, ha adottato una politica oscillante: da un lato mantiene relazioni diplomatiche con Israele, ma dall’altro sostiene Hamas e critica apertamente le politiche israeliane, cercando di guadagnare influenza nel mondo islamico e nei paesi arabi. Infine, l‘Unione Europea tenta di svolgere un ruolo equilibrato, promuovendo il dialogo e sostenendo finanziariamente i palestinesi, ma la sua capacità di incidere rimane limitata dalle divisioni interne e dalla mancanza di unità tra i suoi membri. La domanda è: fino a che punto la comunità internazionale è davvero interessata alla pace, e quanto invece è vincolata dagli interessi geopolitici?
Criticare Israele per la sua presunta “intransigenza” significa ignorare la realtà sul terreno. Chi accusa Israele di non volere la pace dimentica che non è possibile negoziare con chi rifiuta il tuo diritto a esistere. Non è questione di chi abbia ragione o torto, ma di sopravvivenza. Il Medio Oriente è un mosaico di rivalità antiche, interessi moderni e ideologie inconciliabili. Israele ha diritto a difendersi, a garantire la sicurezza dei suoi cittadini e a reagire a ogni minaccia. La pace sarebbe auspicabile, ma non può essere unilaterale, né può arrivare a scapito della sicurezza di Israele: aspettarsi che Israele possa trovare una soluzione pacifica in questo contesto è una visione non solo improbabile, è un’illusione.